FANCY 1

Qualcosa per riflettere, pensare, sognare...alzare il "punto di vista"...

FANCY TALES

   BERENICE     💀👀👿                             .

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   L'infelicità è molteplice. La sfortuna della terra è multiforme.Protendendosi sul vasto orizzonte come l'arcobaleno, ha sfumature di colore altrettanto diverse e anche altrettanto definite, eppure intimamente fuse. Si protende sull'orizzonte come l'arcobaleno! Come mai dalla bellezza ho tratto una simile brutturia? Dal simbolo della pace un'immagine di dolore? Ma, come nell'etica il male è conseguenza del bene, così nella realtà, dalla gioia nasce il dolore.Sia che la memoria della passata felicità costituisca il tormento del presente, sia che le angosce che sono, abbiano origine nelle estasi che avrebbero potuto essere.                               

            Il mio nome di battesimo è Egeo; tacerò quello della mia famiglia.Eppure non vi sono in tutto il paese torri più venerabili per antichità della mia grigia e cupa dimora.La nostra stirpe è stata chiamata razza di visionari; e molti particolari sorprendenti - come l'aspetto della casa avita, gli affreschi della sala principale, gli arazzi delle stanze da letto, la cesellatura di alcune colonne dell'armeria, ma sopratutto la galleria di antichi dipinti, lo stile della biblioteca e il suo contenuto molto particolare - sono prove più che sufficienti ad ad avallare tale credenza.    i ricordi dei miei primi anni sono legati a quella stanza e ai suoi libri di cui non dirò altro. Quì morì mia madre, quì sono nato io.Ma sarebbe del tutto ozioso affermare che non fossi vissuto prima di allora, che l'anima non abbia avuto una esistenza antecedente. Potete negarlo? Non discutiamone. Io ne sono convinto, non pretendo di persuadere gli altri.



                                  

             V'è tuttavia un ricordo di forme aeree, di occhi spirituali pieni di significato, di suoni melodiosi eppure mesti - un ricordo che non vuole cancellarsi, una memoria simile ad un'ombra -vaga, mutevole, indefinita, vacillante; e come di un'ombra mi sarà impossibile liberarmene finché vivrà in me la luce radiosa della mia ragione. Sono nato in quella stanza, destandomi infine dalla lunga notte di ciò che sembrava ma non era, inesistenza, per approdare all'improvviso nella terra stessa delle fate, in un castello della fantasia, nel folle dominio del pensiero e dell'erudizione monastica; non è singolare che mi guardassi intorno con occhi febbrili e stupiti, che seppellissi la mia infanzia nei libri e dissipassi la giovinezza nelle fantasticherie; ma è singolare invece, mentre gli anni fuggivano e la pienezza della virilità mi trovava ancora nella stessa casa - è davvero singolare il ristagno che all'improvviso inaridì le sorgenti della mia vita e il capovolgimento che stravolse il carattere dei miei più semplici pensieri. Le realtà del mondo mi apparivano come visioni e soltanto come visioni, mentre le folli idee della terra dei sogni divenivano in cambio, non la materia prima della mia vita quotidiana, ma realmente, la mia unica intera esistenza.              Berenice ed io eravamo cugini e crescemmo insieme nella mia dimora paterna. Tuttavia crescemmo diversamente: io cagionevole di salute e sprofondato nella malinconia, lei agile, graziosa e piena di vitalità; per lei le escursioni in montagna, per me gli studi del chiostro; io rintanato nel cuore, dedito anima e corpo alla più intensa e dolorosa meditazione, lei spensierata, vagante nella vita senza curarsi delle ombre disseminate lungo il suo sentiero o del volo muto delle ore dalle ali di corvo.  Berenice! Invoco il suo nome - e dalle grigie rovine della memoria migliaia di ricordi tumultuosi si ridestano a quel suono! Oh, la sua immagine è ora vivida davanti a me come nei primi giorni della sua spensieratezza e allegria! Oh bellezza superba eppure fantastica! E poi, poi tutto è mistero e terrore - una storia che non andrebbe raccontata. La malattia, una malattia fatale si abbattè sul suo corpo come vento del deserto; e mentre ancora la contemplavo, lo spirito della trasformazione la travolse, pervadendone la mente,, le abitudini, il temperamento e turbandone nel modo più sottile e terribile, persino la fisionomia. Ahimé il distruttore venne e si dileguò. e  la vittima dov'era? Io non la riconoscevo o almeno, non la riconoscevo più come  Berenice!  

            Nel lungo elenco di malattie che fecero seguito a  quella prima e fatale che aveva così orribilmente mutato la persona fisica e morale di mia cugina, va ricordata come la più triste e ostinata una sorta di epilessia che non di rado si risolveva in uno stato di trance molto somigliante a una vera e propria dissoluzione, dalla quale, in moltissimi casi, si riaveva con un risveglio sorprendentemente repentino.  Contemporaneamente la mia malattia - perché mi è stato detto che soltanto così avrei dovuto chiamarla -  la mia malattia, dicevo, crebbe rapidamente fino ad assumere il carattere di monomania, una nuova e straordinaria forma che, accrescendo vigore di ora in ora, finì per esercitare in me un incontrastato dominio. Questa monomania, se così devo chiamarla, si manifestava con un'irritabilità morbosa di quelle proprietà mentali che la metafisica definisce " di attenzione ".  E' molto probabile che io non sia compreso; ma temo, in verità, che sia impossibile dare alla mente del lettore medio un'idea adeguata di quella nervosa intensità di interesse con cui, nel mio caso, le facoltà di concentrazione (per non usare termini tecnici) , si impegnavano e sprofondavano nella contemplazione anche dei più comuni oggetti dell'universo.            Meditare instancabilmente per lunghe ore, appuntando l'attenzione su qualche dettaglio senza importanza o nei caratteri tipografici di un libro; restarmene assorto per la maggior parte di una giornata estiva inseguendo un'ombra bizzarra proiettata di sbieco sulla tappezzeria o sul pavimento; perdermi per una intera notte a fissare la fiamma immobile di una lampada o la brace del camino; fantasticare per giorni interi sul profumo di un fiore; o ripetermi in maniera ossessiva una parolaqualsiasi finché il suono, mille volte pronunciato, si vuotava di ogni significato; perdere ogni senso dinamico o di esistenza fisica in una immobilità assoluta del corpo, ostinatamente prolungata; ecco alcune delle più comuni e meno dannose aberrazioni prodotte da una condizione mentale a dire il vero, non del tutto priva di precedenti ma certamente tale da sfidare qualsiasi analisi o spiegazione.          Ma non voglio essere frainteso; l'eccessiva, assidua morbosa attenzione così destata in me da oggetti di natura marginale non deve essere confusa con quella tendenza a rimuginare comune a tutta l'umanità e a cui indulgono in particolar modo le persone dotate di una fervida immaginazione. E non era neppure, come si potrebbe pensare in un primo momento, una condizione estrema o una esagerazione di tale tendenza, ma una cosa fondamentalmente e sostanzialmente diversa e distinta. Nel primo caso il sognatore, o visionario, attratto da un oggetto di solito non futile, perde di vista a poco a poco l'oggetto in un mucchio di deduzioni e suggestioni che ne scaturiscono finchè, al termine di un sogno ad occhi aperti, spesso pieno di voluttà, si accorge che l'incitamentum o causa prima delle sue meditazioni è completamente svanito e rimosso. Nel mio caso il movente originario era invariabilmente futile, sebbene assumesse, attraverso la mia fantasia malata, un'importanza irreale e rifratta. Venivano fatte ben poche deduzioni, seppure se ne facevano, e quelle poche tornavano immancabilmente all'oggetto originario, come a un fulcro.   Le meditazioni non erano mai piacevoli e al termine del sogno a occhi aperti la causa prima, ben lungi dall'essere stata persa di vista, aveva raggiunto quell'esagerato interesse soprannaturale che costituiva la caratteristica dominante della malattia.  In una parola le facoltà mentali più particolarmente eccitate in me erano, come ho già detto,  quelle dell'attenzione, mentre nel sognatore a occhi aperti, sono quelle speculative.  I miei libri, all'epoca, se non servivano ad eccitare il mio disordine mentale, condividevano, come è facile comprendere, per il loro carattere fantastico e irrazionale, le caratteristiche qualità del disordine stesso.  Apparirà quindi chiaro che, turbata nel suo equilibrio soltanto da simili inezie, la mia ragione somigliava a quello scoglio di cui dice Tolomeo Efestione che, incrollabile agli attacchi dell'umana violenza e al furore ancor più terribile delle onde e dei venti, tremava al solo tocco del fiore chiamato Asfodelo.       

                                                                        Sebbene ad un osservatore distratto possa sembrare indubbio che l'alterazione prodotta dalla tragica malattia nella condizione morale di Berenice dovesse offrirmi parecchi argomenti su cui esercitare l'intensa e anormale capacità meditativa, di cui non senza difficoltà ho descritto la natura, tuttavia non era così.   Negli intervalli lucidi del mio male la sua sciagura mi addolorava realmente e prendendo profondamente a cuore la rovina assoluta della sua bella e dolce esistenza non mancavo di meditare spesso e amaramente sulle forze prodigiose e misteriose che potevano avere operato una così strana e improvvisa rivoluzione.- Ma queste riflessioni erano le stesse che in simili circostanze sarebbero occorse alla maggior parte dei mortali. Fedele al suo particolare carattere, il mio disordine mentale si dilettava nei mutamenti di minore importanza, sebbene più impressionanti, avvenuti nella struttura fisica di Berenice, nella singolare e spaventosa distorsione della sua fisionomia.                                              Durante i giorni più splendidi della sua ineguagliata bellezza, certamente non l'avevo mai amata. Nella strana anomalia della mia esitenza i miei sentimenti non erano mai stati del cuore e le passioni erano sempre state della mia mente.------Attraverso i grigiori del primo mattino, tra le ombre intricate del bosco a mezzogiorno, nel silenzio della mia biblioteca durante la notte, mi aveva aleggiato davanti agli occhi e io l'avevo veduta, non come Berenice viva e palpitante, bensì come la Berenice di un sogno; non come una creatura terrestre, ma come l'astrazione di tale essere; non come una cosa da ammirare, ma da analizzare; non come oggetto d'amore ma come il tema della speculazione più astrusa.                                  E ora tremavo in sua presenza, impallidivo al suo avvicinarsi e tuttavia, commiserando amaramente le pietose condizioni del suo decadimento, mi ricordai che mi aveva lungamente amato e in un malaugurato momento, le parlai di matrimonio. Alla fine il momento delle nostre nozze si approssimò quando, un pomeriggio d'inverno di quell'anno - uno di quei giorni intempestivamente caldi, calmi e nebbiosi - sedevo ( credendomi solo ) nella parte più recondita della biblioteca.                  Ma sollevando gli occhi, vidi Berenice dinanzi a me.  Era la mia immaginazione eccitata o l'influenza dell'atmosfera, o l'incerta luce dello studio, o i tessuti grigi di cui era drappeggiata la sua figura a darle un contorno così vacillante e indistinto? Non saprei.   Non disse una parola e io, per nulla al mondo, avre proferito una sillaba.    Un brivido gelido mi percorse le membra; un senso di insopportabile angoscia mi oppresse; una curiosità devastante mi afferrò l'animo e ricadendo sulla sedia rimasi qualche attimo senza respiro, immoto, con gli occhi sulla sua figura.Ahimè! La sua magrezza era estrema e non un segno del suo essere primitivo si scorgeva più in tutta la sua persona.       Il mio sguardo febbrile si posò infine sul suo viso.  La fronte era alta, pallidissima, singolarmente serena e i capelli, un tempo neri come l'ebano, la ricoprivano in parte e ombreggiavano le tempie incavate con innumerevoli riccioli fattisi ora di un giallo acceso e spiacevolmente contrastanti nel loro carattere con la malinconia dominante del suo aspetto.             Gli occhi erano senza vita, senza splendore e parevano privi di pupille; involontariamente mi ritrassi dalla loro vitrea fissità per contemplare le labbra sottili e serrate. Queste si schiusero e in un sorriso straordinariamente significativo i denti della nuova Berenice si mostrarono lentamente alla mia vista. Volesse Iddio che non li avessi mai veduti o che, vedutili, fossi morto!                                                                                           Lo sbattersi di una porta mi scosse e alzando lo sguardo, scoprii che mia cugina aveva abbandonato la stanza. Ma ahimè, dalla stanza disordinata della mia mente non si era allontanata e non sarebbe stato scacciato il candido e allucinante spettro dei suoi denti.    Non una macchia sulla loro superficie, non un'ombra sul loro smalto o un'incisione sui bordi che il breve attimo del suo sorriso non fosse bastato a imprimere nella mia memoria. I denti! I denti!  Erano quì, tangibili davanti a me; lunghi, stretti e troppo bianchi, con le labbra esangui che vi si serravano attorno come al momento esatto del loro primo terribile apparire. Poi sopravvenne tutta la furia della mia monomania e invano lottai contro il suo strano, irresistibile influsso.  Tra i molteplici oggetti del mondo esterno non pensavo che ai denti. Per questi provavo un desiderio febbrile. Ogni altro oggetto, ogni diverso interesse era assorbito in quell'unica contemplazione. Essi soltanto erano presenti allo sguardo della mia mente ed essi diventarono l'essenza della mia vita mentale. Li vedevo in ogni luce, li giravo in ogni posa, ne stuavo le caratteristiche, riflettevo sulle loro particolarità.Ne analizzavo la conformazione, meditavo sull'alterazione della loro natura. Rabbrividivo  nell'attribuirgli, nella mia immaginazione, la capacità emotiva e senziente e anche svincolati dalle labbra, una qualche facoltà di espressione morale.  Sentivo che soltanto il loro possesso avrebbe potuto farmi ritrovare la pace e restituirmi la ragione.                         

            E la sera si chiuse su di me, poi sopraggiunsero le tenebre, indugiarono e infine si dileguarono - e il giorno sorse ancora -  e le nebbie di un'altra notte si raccolsero di nuovo intorno a me - e io sedevo ancora, impietrito  in quella stanza solitaria e ancora stavo sprofondato nella mia meditazione e ancora il fantasma dei denti mi teneva  nella morsa del suo terribile potere fluttuando con la più vivida orrifica chiarezza tra le luci e le ombre mutevoli della stanza.      Infine un grido come di terrore e angoscia spezzò i miei sogni. A questo, dopo una pausa, seguì un suono confuso di voci turbate, miste a molti gemiti sommessi di dolore e affanno.  Mi alzai dalla sedia e spalancata una delle porte della biblioteca vidi nell'anticamera una domestica in lacrime la quale mi comunicò che Berenice non era più! Era stata colta da un attacco di epilessia sul far del giorno e ora, al calare della notte, la tomba era pronta ad accoglierla e tutti i preparativi per il funerale erano terminati.  Mi ritrovai di nuovo seduto da solo e mi sembrava di uscire da un incubo confuso ed eccitante. Sapevo che era mezzanotte come sapevo che al calar della notte Berenice era stata sepolta ma, del terribile periodo di tempo trascorso da allora non avevo non avevo reale e precisa coscienza.  Ma il ricordo era colmo d'orrore - di un orrore tanto più orribile in quanto vago, di un terrore tanto più terribile in quanto ambiguo.   Era una pagina spaventosa della mia vita interamente composta di reminiscenze oscure, mostruose e incomprensibili.  Invano tentavo di decifrarle e intanto, di quando in quando, qualcosa come la larva di un suono perduto, un grido acuto e lacerante, il grido di una voce di donna sembrava risuonarmi nelle orecchie.   Avevo commesso qualcosa ma cosa?  Me lo chiedevo ad alta voce e l'eco sussurrante della stanza mi rispondeva: " Cosa?".      Sul tavolo accanto a me ardeva una lampada e vicino c'era una piccola scatola: non aveva alcun segno particolare, l'avevo notata spesso prima di allora perché apparteneva al medico di famiglia.   Ma come mai ora si trovava  sul mio tavolo e perché rabbrividivo guardandola?  Non c'era modo di spiegarsi tutto ciò, ma alla fine lo sguardo mi cadde sulle pagine aperte di un libro e su una frase sottolineata:                 "Dicebant mihi sodales, si sepulchrum amicae visitarem, curas meas aliquantulum fore levatas

".                                                            Perché leggendole i capelli mi si drizzarono in testa e il sangue mi si gelò nelle vene?   Sentii bussare leggermente alla porta della biblioteca e pallido come un morto, un domestico entrò camminando in punta di piedi. Il suo sguardo era folle di terrore; mi parlò con voce tremante, strozzata, bassissima. Cosa diceva? Capivo soltanto brandelli di discorso.                                      Raccontava di un grido disumano che aveva spezzato il silenzio della notte... del radunarsi di tutta la servitù, della ricerca della provenienza del suono; poi il tono della sua voce si fece paurosamente chiaro mentre parlava di una tomba violata... di un corpo avvolto in un sudario, sfigurato, che ancora respirava... ancora palpitava..., ancora vivo!                                          Indicò i miei vestiti: erano infangati e macchiati di sangue.  Non parlai ed egli mi prese delicatamente una mano: recava impressi i segni di unghie umane; volse lo sguardo ad un oggetto appoggiato alla parete. Lo guardai qualche istante: era una vanga. Con un grido, mi precipitai alla tavola, afferrai la scatola che vi era posata, ma non riuscii ad aprirla.   Nel tremito mi scivolò di mano e cadde pesantemente andando in frantumi; ne ruzzolarono fuori, con rumore secco, alcuni strumenti da dentista, mischiati a trantadue minuscoli oggetti bianchi che parevano d'avorio, che si sparpagliarono quà e là sul pavimento

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LA CURA COMODISSIMA        👿♈♉♊♋♌♍♎♏♐♑♒♓                           

Pochi dei miei amici sanno che per qualche tempo ho esercitato anche la medicina. Fu un tempo breve, molti anni fa, abitavo a Praga. Nelle ore d'ozio mi leggevo certi libri di storia della magia medioevale che avevo comperato da un rivenditore fermo ogni giorno col suo carretto all'ombra della statua di Carlo IV.

            Le ore d'ozio erano molte perché avevo pochi clienti, anzi, nel tempo di cui parlo ne avevo uno solo, una donna. Ma dall'ozio nasce la pigrizia e in breve anche il lavoro di visitare quell'unica cominciò a pesarmi, tanto più che voleva essere visitata quasi ogni giorno e abitava lontano mentre io avevo alloggio in una camera quasi alle falde del Hradcany.

           La pigrizia d'altro canto aguzza l'ingegno: per essa fu che trovai una maniera molto singolare di adempiere ai miei doveri di medico col minimo sforzo e fastidio. Non occorre che mi perda a descrivere il carattere della signora: basterà sapere che si chiamava Libussa Bohacek e che, come spesso avviene alle signore benestanti, non aveva una malattia sola e acuta ma fruiva di mali leggeri e molteplici. Per questo ella desiderava essere visitata ogni mattina, o quasi.

          Qualche volta le palpitava disordinatamente il cuore, qualche altra credeva sentirsi dolere il cervello entro il cranio: un giorno le pungeva il respiro, un altro le pareva che un lento veleno le serpeggiasse entro l'intricata rete delle arterie; altre volte ancora meno poetici travagli le turbavano questa o quella regione della sua intima anatomia. La mia visita consisteva in rapidi esami e ordinazioni cui seguivano lunghi conversari intorno ad argomenti eterni quali il bel tempo, la pioggia, la caducità della giovinezza, i libri che si leggono.

         Appunto in alcune di queste innocenti conversazioni il caso, o la vigilatissima fortuna, seppe insinuare il seme della mia scoperta. Discorrevamo di libri e le spiegavo che stavo leggendo, come ho detto, storie della magia medioevale e precisamente certe relazioni intorno alla pratica detta envoùtement.

         Non occorre aver comprato vecchi trattati all'ombra della statua di Carlo IV per sapere che cosa fosse l'envoùtement: l'operazione del costruire una immagine di cera che si viene, con adatte formule stregonesche, quasi impregnando d'una parte della vitalità di un dato individuo: per tal modo questa figura di cera, portata lontano quanto si vuole dalla persona di cui è l'immagine, serba con essa misteriosi legami, tanto che, trapassando la cera con uno spillone, si produce un'analoga reale ferita nella persona lontana e così comodamente la si può uccidere.

  I processi medioevali contro omicidi che si presumevano eseguiti con l' envoùtement sono celebri e non occorre parlarne: tale pratica ha servito anche alla fantasia poetica di romanzieri e drammaturghi e ognuno l'ha letta almeno nella Regina Margot di Dumas o nel Sogno d'un tramonto d'autunno di Gabriele d'Annunzio.  La signora Bohacek si divertiva ai miei racconti e ci credeva a metà: prudentissimo atteggiamento in queste materie.

         Da quei discorsi e da quella mezza fede e quasi per gioco, fummo condotti insieme a un'invenzione strana. Cioè tentammo un envoutement perfezionato e d'intenzioni benefiche ( mentre la pratica antica non aveva che scopi vendicativi e omicidi ).  Da un abilissimo lavoratore che avevo conosciuto in un baraccone di figure di cera facemmo costruire una figura grande quasi quanto al vero, somigliante quanto fu possibile alla mia cliente: e questa statua cerea mediante quattro cerniere d'ottone si apriva longitudinalmente e dentro era tutta costruita come quelle che usano nelle scuole d'anatomia: v'era lo scheletro, rivestito dei fasci muscolari; v'erano il cuore e il fegato, i polmoni e gli intestini e tutto il resto, perfino sù nel cranio, il cervello, perfino giù, attaccati sotto il diaframma, i due reni: tutto quello che serve per essere un uomo, anzi, una donna.  Finita la riproduzione, tentai, sulla scorta di vecchi trattati e con l'aiuto di una esperta che scovai in certi antrosi vicoli del Josefov, di esercitarvi sopra la parte più misteriosa e importante della pratica dell' envoutement, cioè di darle la facoltà vitale personalizzata, che la facesse riprodurre sull'originale ( sulla signora Libussa ) tutte le modificazioni fisiche cui avessi voluto sottoporla. Non starò quì a rivelare come: anzitutto credo sia proibito divulgare, certe cose  poi perché non me lo ricordo più. La cosa riuscì a perfezione. La signora con atto di enorme fiducia mi consegnò la statua che, chiusa in una cassa mi portai in carrozza fino a casa mia; ivi la sballai accuratamente e, perché non fosse a facile portata di mano di chiunque, con delicatezza la posai in cima ad un'alta stufa di terracotta che dominava un angolo della mia camera. Confesso che quella notte il mio sonno fu turbato da tormentosi incubi e sogni.  Solo assai tardi riuscii ad addormentarmi: lo strano lavoro del giorno innanzi mi pareva un gioco lontano.- La camera era piena di luce, guardai l'immagine cerea che s'ergeva fin quasi al soffitto. Mi vestii, poi stabilii, ponendo uno sgabello sopra un tavolino e trascinando questo presso la stufa, un sistema ascensorio per poter salire più o meno alto a esaminare partitamente la statua.      Arrampicatomi lassù la contemplai un momento, poi l'aprii. Osservai bene tutto il suo interno e ad un certo punto, il mio  esercitato occhio di anatomista mi fece avvertire una piccola imperfezione nella forma del cuore: un leggerissimo rigonfiamento della sua superficie verso l'esterno; cosa da nulla, non me n'ero io accorto il giorno avanti? O quell'imperfezione si era prodotta durante la notte? O forse semplicemente era l'effetto delle scosse durante il trasporto? Non sapevo al momento darmi una risposta ma dolcissimamente, con due o tre pressioni delle dita, come fa uno scultore quando modella qualche delicato particolare nella plastilina, corressi la curva del cuore e la  condussi alla voluta perfezione. Richiusi l'immagine, uscii portandomi la chiave della camera e ansioso, corsi traverso quasi l'intera città, a casa della mia cliente.     - Signora Libussa - le dissi senza neppure ricordarmi di salutarla - signora, questa mattina lei ha avuto un po' di palpitazione al cuore? - Si dottore, ma come ... - E le è passata? - Quasi subito dottore.                Raccontai affannosamente l'esperienza.Ridevamo come bambini di maraviglia e di gioia. Dopo un poco me ne andai. Solo mentre tornavo a casa mi colse uno scettico dubbio: forse la signora, allucinata dalla mia impetuosa domanda, d'un tratto aveva creduto di aver sentito quel male?   La mattina dopo fui più cauto. Aperta l'immagine e riesaminatola con cura, m'avvidi di un leggero scontorcimento dell'ultima parte dell'intestino. Lo riordinaii ricomponendone per bene le pieghe, poi corsi dove sapete. - Come si è sentita signora questa mattina? - Abbastanza bene, ma verso le nove ho avuto...non oso dirglielo dottore. - Ho capito. E...le continua? - Oh no, è durata mezz'ora, poi è cessata. Il trionfo era perfetto.                                                                  

               L'uomo non sa durare nella meraviglia ma in breve si abitua a tutte le  situazioni più rare. In pochi giorni la cosa mi si fece naturalissima e la mia pigrizia ne traeva il più ampio diletto. Ogni mattina, invece di traversare la città e andare a visitare la signora, visitavo l'immagine di cera. Qualsiasi pur leggera deformazione vi scoprissi, in un polmone o in un rene, nel fegatop o nel cuore, in qualunque esterna o intima parte, con pochi tocchi facilissimamente riaccomodavo la docile materia, certo che con quell'atto semplice io avevo curato a perfezione la cliente lontana. Tornai da lei dopo quella seconda decisiva esperienza, due volte a distanza di quattro o cinque giorni una dall'altra; non ebbi mai una delusione. Anche Libussa si era abituata perfettamente e non provava più alcuna perplessità, curiosità o meraviglia. Così finii per non andarci più affatto. Ero scrupolosissimo nel compiere ogni mattina la visita. I primi giorni avevo impedito a chiunque l'accesso alla mia camera, poi mi risolsi a lasciarvi entrare la cameriera, dopo averle fatto giurare che non avrebbe mai, per nessuna ragione al mondo, toccato quell'immagine. -    Eran passati tre mesi e forse più quando un bel giorno pensai ch'era opportuno andare almeno una volta a vedere in persona la signora Bohacek, come amico se non come medico. (Dovevo anche, come medico, presentarle il conto delle mie visite, cosa che non potevo fare con l'immagine di cera ).   Quel giorno, l'arrivo di un conoscente italiano che dovetti accompagnare in giro a vedere la città, me ne distolse. Rincasai a notte inoltrata e la mattina mi svegliai troppo tardi. Il giorno appresso ancora non so quale altro impedimento mi trattenne. Il quarto giorno ( dopo eseguita con la solita diligenza la visita e la cura quotidiana ) uscii       determinatissimo a spingermi a Palackèho-trida. Ma arrivato appena alla piazza vicino a casa mia non c'era neppure un veicolo e cominciava a piovigginare: s'era ai primi di Ottobre. Nonostante la pioggia, mi spinsi lentamente, pieno di malumore, inquieto e irragionevole, fino alla prossima riva della Moldava. L'acqua era grigia, grigia l'aria; la pioggia cresceva e avevo freddo.  L'inverno era piombato improvviso sulla città e io non avevo pensato a mettermi un soprabito. Mi trascinaii verso casa mia. Salii le scale e raggiunsi la mia camera. Appena entrato un piacevole benessere mi invase; mi avvolse un tepore inaspettato e consolante: la camera era calda. Vidi luccicare il fuoco al basso della stufa. La provvida cameriera s'era accorta del freddo sopravvenuto, la lodai in cuor mio. Presi un libro e m'affondai  in una poltrona per godere subito le prime voluttà dell'inverno in una camera calda.   Avevo appena letto due o tre righe quando un sospetto improvviso, o un avvertimento interiore, non so che cosa, mi fece d'un tratto balzare in piedi e voltare a guardare in su, verso l'immagine a cui non avevo più pensato rientrando.           Agghiacciai di spavento: la statua non c'era più.Feci per precipitarmi fuori a chiamare la cameriera, tornai indietro, mi arrampicai, guardai il piano in alto della stufa,lo toccai:bruciava. Credo che urlai dal terrore. Della statua non v'era più traccia e capii ch'ella era totalmente, angosciosamente distrutta, liquefatta.  Sentii forse il superstite odore della cera sciolta, ma ero troppo disperato per  riuscire a percepire le mie sensazioni.  D'un tratto gridai, per un altro orrore: sul piano bruciante della stufa c'erano quattro piccoli oggetti d'ottone, quattro cerniere, le cerniere che permettevano alla statua di aprirsi e chiudersi; quattro cosette d'ottone, avanzi macabri della invenzione stupenda.  Per un pezzo rimasi come ebete, lassù ritto a guardare l'orrido vuoto lasciato dalla scomparsa.     - Mi occorse uno sforzo supremo per raccogliere le quattro reliquie.          E di colpo un nuovo pensiero ancora più atroce mi colse e cominciai a tremare come un epilettico.          -  Libussa Bohacek? -           Quando mi riuscì di imporre qualche ragionevole movimento alle mie membra mi precipitai giù, uscii, fuggii noncurante della pioggia dirotta a corsa di pazzo, traverso la città; raggiunsi Palackeho-trida, fui presso la casa della mia cliente; rallentai il passo e cercai di ricompormi. Entrai nel portone. Una portinaia che non conoscevo mi fermò:  - Dove va?  -   Dalla signora Bohacek -  Non sta quì.    -    Oh...ci stava.    -  Non so; io son quì da due mesi e non l'ho mai conosciuta.   -  Stava al secondo piano, a sinistra.  -  Lì ora c'è un signore romeno.  -  Ma non sa...?   -  Non so niente. -  Forse il signore romeno sa...?  -  Non è possibile, lui è quì appena da un mese.Quando sono venuta io quell'alloggio che dice lei era sfitto .                      Non sapevo più che dirle. Non sapevo come andarmene  e lei mi facilitò il compito chiudendomi la porta in faccia.              Tornai in strada sotto il diluvio.                   Tra le varie ipotesi possibili intorno alla sparizione di Libussa Bohscek, dalle più moderate alle più esoteriche, non ho mai saputo scegliere. So che da quel giorno ho abbandonato Praga e ho abbandonato la medicina. So che un tremendo raccapriccio mi ha ossesso per lungo tempo, mentre ho cambiato città, professioni, tenori di vita; a nessuno ho mai raccontato i miei terrori e i miei dubbi. Solo dopo alcuni anni mi calmai, ma ancora, ogni tanto, a tratti, tra lunghi intervalli, mi riassale la memoria atroce di quell'avventura. Questa è la prima volta che mi avviene di raccontarla, forse spero con ciò di liberarmene come per confessione.    E se qualcuno non credesse alla verità di questo racconto, sappia che ho ancora le quattro cerniere di ottone e sono disposto a farle vedere a chiunque venga a trovarmi.

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     IL BARILE DI AMONTILLADO    ጊZ2⧭👿👿                                                                             

                                         La miriade di offese di Fortunato le avevo sopportate come meglio avevo potuto, ma quando arrivò all'oltraggio giurai di vendicarmi. Voi che ben conoscete la natura della mia anima non supporrete che io mi sfogassi in minacce. Finalmente, volevo vendicarmi; questo era un punto fermo, ma il modo con cui avrei attuato questo proposito escludeva ogni idea di rischio. Volevo non soltanto punire, ma punire rimanendo impunito. Un torto non può essere risarcito se il prezzo pagato ricade su chi si vendica. Del pari non è riparato quando il vendicatore manca di manifestarsi come tale a colui che ha fatto il torto.                                                                                 Si deve sapere che nè con parole nè con fatti detti mai modo a Fortunato di dubitare della mia benevolenza.Continuai, come volevo, a sorridergli, ed egli non si accorgeva che il mio sorriso ora era suscitato dal pensiero che sarebbe stato immolato.                                                                         Aveva un punto debole - questo Fortunato - anche se per altri aspetti era un uomo da rispettare e perfino da temere. Si vantava di essere grande conoscitore di vini. Pochi italiani sono veri virtuosi in materia. Per la maggior partte il loro entusiasmo serve solo a trovare tempo e opportunità per imbrogiare i milionari inglesi e austriaci. Per i quadri e i gioielli Fortunato, come i suoi compatrioti, era un ciarlatano, ma in materia di vecchi vini non mentiva. Sotto questo aspetto io non differivo molto da lui: ero esperto di annate italiane di vini e ne compravo largamente ogni volta che potevo.                                                                                                                                                        Era quasi buio quella sera, al colmo delle follie del Carnevale, quando incontrai il mio amico. Mi si avvicinò con un calore eccessivo perché aveva bevuto molto. Era in maschera, aveva un abito attillato a strisce e in capo un cappello a cono con campanellini. Fui così contento di vederlo che pensai che non avrei mai smesso di stringergli forte la mano.                                                           " Mio caro Fortunato " gli dissi, " sono felice di averla incontrata.Quanto sta bene        oggi!  Ma ho ricevuto un barile di qualcosa che passa per Amontillado, ma ho i miei dubbi ".                       "Come?" disse lui, "Amontillado? Un barile? Impossibile! E nel bel mezzo di                Carnevale!"        "Ho i miei dubbi" replicai, " sono stato così sciocco da pagare il pieno prezzo dell'Amontillado senza consultarla in proposito. Lei non era reperibile e avevo paura di perdere un affare".                          " Amontillado!"     "Ho i miei dubbi."  "Amontillado!"          "Debbo         chiarirli."         "Amontillado!"                                                                                                                               "Dato che lei è occupata sto andando da Luchesi. Se c'è uno che può dare un giudizio     questo è lui.Saprà consigliarmi."                                                                                                                      " Luchesi non è capace di distinguere un Amontillado da uno Sherry."                                              " Eppure certi sciocchi sostengono che ha un palato che vale il suo."                                                  " Venga, andiamo."                                                                                                                                   " Dove? "                                                                                                                                                   " Nelle sue cantine."                                                                                                                                 " Amico mio proprio no; non voglio approfittare della sua cortesia . Mi rendo conto che lei   ha un impegno. Luchesi..."                " Non ho impegni...Andiamo!"                                                              "Ancora no amico mio.Non è tanto per l'impegno quanto per il raffreddore dal quale la vedo affetta. Le cantine sono insopportabilmente umide e incrostate di salnitro."                                                  "Andiamo ugualmente.Il raffreddore è proprio cosa da nulla. Amontillado! L'hanno           raggirata. Per quanto riguarda Luchesi, non sa distinguere uno Sherry da un Amontillado!"                                            Detto questo, Fortunato si impadronì del mio braccio; misi una maschera di     seta nera sul viso e avvolto in un roquelaire mi lasciai trascinare verso il mio palazzo.                                  Non c'erano servi in casa;s'erano tutti dileguati per godersi il Carnevale. Avevo detto loro che non sarei tornato fino al mattino e avevo esplicitamente vietato di allontanarsi dalla casa.Tali ordini erano sufficienti, come ben sapevo, per garantire la loro immediata scomparsa non appena avessi voltato le spalle.    Sfilai due torce dal loro sostegno e dandone una a Fortunato lo pilotai attraverso una serie di stanze fino al passaggio a volta che immetteva nelle cantine. Scesi per una lunga scala a chiocciola, raccomandandogli di stare attento nel seguirmi. Arrivammo finalmente ai piedi della scala e ci ritrovammo insieme sul suolo umido delle catacombe dei                             Montresors.                                                                                                                                              
 L'andatura del mio amico era traballante e i campanellini del suo cappello tintinnavano mentre avanzava a grandi passi.     " Il barile?" chiese. " E' più in là " dissi " ma guardi le bianche ragnatele come brillano sulle pareti di questa grotta!".   Si volse verso di me e mi guardò negli occhi con lo sguardo acquoso dell'ubriaco.                           "Salnitro?", domandò dopo un po'.   "Salnitro" risposi, "da quanto tempo ha questa tosse?"  "Ugh! Ugh! Ugh! Ugh! ........".  Il mio povero amico non riuscì a rispondermi per molti minuti.          "Non è niente", disse alla fine.          "Venga", dissi con decisione, " torniamo indietro, la sua salute è preziosa. Lei è ricco, rispettato, ammirato, amato; è felice come io lo ero una volta. E' un uomo di cui si sentirebbe la mancanza. Io non ho problemi. Torniamo, si ammalerà e non voglio averne la responsabilità. D'altra parte c'è Luchesi..." .  "Basta!", disse, "la tosse non è niente, non mi ucciderà. Non morirò certo di tosse."              "Vero, vero", risposi, "ed io non voglio certo allarmarla senza ragione, ma deve essere cauto. Un sorso di questo Medoc ci difenderà dall'umidità."         A questo punto feci saltare il collo di una bottiglia che avevo preso da una lunga fila di sorelle che giacevano nella muffa.  "Beva", dissi porgendogli il vino.  Egli lo portò alle labbra con uno sguardo avido. Fece una pausa e s'inchinò familiarmente verso di me, mentre i campanellini suonavano.   "Bevo", disse, "a quanti sono sepolti intorno a noi".  "Ed io alla sua lunga vita."   Di nuovo mi prese il braccio e andammo avanti.  "Queste grotte" disse, " sono estese."         "I Montresors", risposi, " furono una grande e numerosa famiglia."    "Ho dimenticato il suo stemma."       "Un grande piede umano d'oro, in campo azzurro; il piede schiaccia un serpente rampante che gli morde il tallone."     "Ed il motto?"          "
Nemo me impune lacessit."  ( Nessuno mi ha mai ferito impunemente ).                                                               "Bene!", disse. Il vino gli brillava negli occhi ed i campanelli suonavano. La mia immaginazione si scaldava con il Medoc. Dopo essere passati attraverso lunghe  pareti di ossa accatastate, mescolate a barili e botti, giungemmo ai più remoti recessi delle catacombe.   Mi fermai di nuovo e mi presi la libertà di afferrare Fortunato per un braccio al di sopra del gomito.    "Il salnitro!" dissi, " guardi, aumenta; si attacca alle volte come muschio. Siamo sotto il livello del fiume.Le gocce di umidità penetrano nelle ossa.Venga, torniamo, prima che sia troppo tardi. La sua tosse..."  "Non è nulla" disse, "andiamo avanti.Ma prima un'altra sorsata di Medoc".   Spezza il collo a una bottiglia di De Grave e gliela allungai. La vuotò tutta d'un fiato. I suoi occhi brillavano di una luce feroce. Rise e lanciò la bottiglia in alto con gesti che io non capivo.  Lo guardai sorpreso. Ripetè il movimento - un movimento grottesco.  "Non capisce?" mi disse.    "No" risposi. "Allora lei non è della confraternita?"   "Come?"   "Non è massone?"  "Si,si" dissi, "si,si" "Lei? Impossibile".  "Un massone" replicai.   "Il segno"disse, "un segno".    "E' questo, risposi estraendo una cazzuola dalle pieghe del mio roquelaire.                    "Lei scherza" disse arretrando di qualche passo, " ma andiamo ad assaggiare l'Amontillado!"            "E sia", dissi, riponendo l'attrezzo sotto il mantello ed offrendogli di nuovo il braccio. Vi si appoggiò pesantemente e continuammo la nostra strada in cerca dell'Amontillado. Passammo sotto basse arcate, scendemmo, salimmo, scendemmo di nuovo fino ad arrivare ad una profonda cripta in cui l'aria viziata faceva rosseggiare più che splendere le torce.     All'estremità della cripta ne apparve un'altra ancora più angusta, le cui pareti erano tappezzate di resti umani, accatastati nella grotta alla maniera in uso nelle grandi catacombe di Parigi. Tre lati di questa cripta interna erano così decorati; dalla quarta parete le ossa erano state tirate giù e giacevano sparpagliate per terra, formando un mucchio di una certa altezza. Dentro la parete liberata dalle ossa vedemmo una nicchia ancora più interna o meglio, un recesso profondo meno di un metro e mezzo, largo un metro e alto circa due.  Non sembrava fosse stata costruita con un preciso scopo ma che fosse piuttosto formata casualmente dall'intervallo tra due dei colossali supporti della volta e la parete di fondo era costituita da uno dei muri perimetrali di solido granito.                            Inutilmente Fortunato, sollevando la torcia ormai fioca, tentava di esaminare il fondo di questo recesso. La debole luce ormai alla fine, non ci consentiva di vedere.  "Proceda" dissi, "quì dentro c'é l'Amontillado. In quanto a Luchesi..."     "Non sa nulla", interruppe il mio amico, mentre avanzava a stento con me alle calcagna.     In un istante aveva raggiunto l'estremità della nicchia e vedendosi bloccato dalla roccia, rimase come istupidito.           Un momento più tardi io lo avevo incatenato al granito. Dalla sua superficie sporgevano due ganci di ferro distanti poco meno di mezzo metro in senso orizzontale. Da uno di essi pendeva una corta catena, dall'altro un lucchetto. Passatagli la catena attorno alla vita serrarla fu un affare di pochi secondi.Era troppo sbalordito per resistere. Girata la chiave mi ritrassi dalla nicchia.   "Passi la mano sulla parete" dissi, "sentirà il salnitro.In verità è molto umido.Lasci che l'implori ancora di tornare indietro.No? Allora la debbo lasciare. Prima però debbo avere per lei tutte le piccole attenzioni che sono in mio potere".                                                                                                                                                              "L'Amontillado", esclamò il mio amico, non ancora ripresosi dallo stupore.   "Giusto", risposi, "l'Amontillado".               Appena dette queste parole mi detti da farein mezzo al mucchio di ossa di cui ho parlato prima. Spostandole, trovai subito una quantità di pietre da costruzione e della calce. Con questi materiali  e con l'aiuto della cazzuola, cominciai febbrilmente a murare l'entrata della nicchia.     Avevo appena completato uno strato di  muratura quando mi accorsi che l'ubriacatura di Fortunato era in parte passata.    La prima indicazione mi venne dal pianto lamentoso che saliva dal fondo della nicchia.   Non era il pianto di un ubriaco. Ci fu poi un lungo, ostinato silenzio.  Costruii poi un secondo, un terzo, un quarto strato di muratura e allora  sentii squotere furiosamente la catena.   Il rumore durò parecchi minuti durante i quali, per poterlo udire più distintamente e con maggiore soddisfazione, smisi di lavorare e mi sedetti sopra le ossa. Quando il rumore cessò, ripresi la cazzuola e finii senza interruzioni il quinto, il sesto, il settimo strato. La parete giungeva ora all'altezza del mio petto. Di nuovo mi fermai e tenendo la torcia al di sopra della muratura proiettai una fioca luce sulla figura che era dentro.     Una serie di strilli acuti e penetranti esplose improvvisamente dalla gola della figura incatenata e sembrò spingermi violentemente all'indietro.   Per un istante esitai, tremai; toccai con la mano la solida struttura della catacomba e mi sentii soddisfatto. Mi riavvicinai alla parete , risposi alle sue grida.Feci loro eco.le accompagnai, le superai in volume e in potenza e allora l'altro si calmò.              Era ora mezzanotte ed il mio disegno era quasi compiuto.  Avevo terminato l'ottavo, il nono e il decimo strato; avevo completato anche una parte dell'undicesimo e rimaneva solo una pietra da incastrare e murare. Facendo un sforzo per il suo peso, la sistemai quasi nella sua posizione definitiva.         Ora dalla nicchia arrivava una leggera risata che mi fece drizzare i capelli in testa.  Seguì una voce roca che  stentavo a riconoscere per quella del nobile  Fortunato.  La voce diceva: "Ah!Ah!Ah! Eh!Eh!Eh!      Un ottimo scherzo, proprio un eccellente giochetto, ci faremo un sacco di risate a palazzo - Eh! Eh! Eh! - sul nostro vino -  Eh!Eh!Eh!".         "L'Amontillado" dissi.         "Eh ! Eh! Eh! - Si, l'Amontillado. Ma non si sta facendo troppo tardi?  Non ci staranno aspettando a palazzo Lady Fortunato e gli altri? Dobbiamo andare."       " Si", dissi, "andiamo". "Per l'amore di Iddio, Montresors!"       "Si" dissi, "per l'amore di Iddio!"                   A queste parole attesi invano una risposta. Divenni impaziente. Chiamai ad alta voce "Fortunato!"   Nessuna risposta.Chiamai di nuovo "Fortunato!"      Ancora nessuna risposta. Spinsi la torcia attraverso la piccola apertura rimasta e la lasciai cadere dentro. In risposta venne solo un tintinnio dei campanelli. Sentii male al cuore a causa dell'umidità delle catacombe.  Mi affrettai a finire il mio lavoro incastrando l'ultima pietra nella sua sede e la murai.   Contro la nuova parete costruita rialzai uno schermo di ossa. Per mezzo secolo nessun mortale le ha disturbate.   IN PACE REQUIESCAT!

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