FANCY 1

Qualcosa per riflettere, pensare, sognare...alzare il "punto di vista"...

L' ORIGINE DELLE SPECIE

DARWIN 

    " C'è qualcosa di grandioso in questa visione della vita, con tutte le sue proprietà, che è stata originariamente infusa in poche forme o in una sola: e di come, mentre questo pianeta orbitava nello spazio in ottemperanza alle leggi della gravità fissate una volta per tutte, da un inizio tanto semplice così tante forme di vita si siano evolute e stiano evolvendo, tutte straordinariamente belle e degne della più grande ammirazione"

   Charles Darwin, L'origine delle specie ( 1859 ) 

Il nucleo della proposta di Darwin

        Prima di addentrarci nelle complesse teorie evoluzionistiche di cui oggi disponiamo, ritengo opportuno fornire a chi si interessa della questione almeno un condensato della base di partenza che ha origine, come tutti sanno dalle teorie pubblicate da Charles Darwin in epoche abbastanza recenti. Considero stupefacente infatti che solo nel 1859 si sia affacciata al mondo l'idea di un evoluzione graduale in alternativa al  creazionismo fino a quel momento imperante, per cui ogni singolo essere era stato creato da sé e da sempre esistito così come oggi lo vediamo. L'uomo al centro dell'universo.


      La proposta di Darwin per spiegare l'evoluzione è incredibilmente semplice, secondo alcuni lo è fin troppo. L'enunciazione della teoria darwiniana consiste infatti in due parti: la prima è in genere accettata, mentre la seconda è a tutt'oggi molto contestata.

      La prima parte dichiara che tutti gli organismi oggi viventi sulla terra derivano da un gruppo di organismi primitivo, " qualche antica, infima ed estinta forma" della cui struttura non si ha la minima idea, vissuti milioni e milioni di anni fa. Oggi in realtà sappiamo circa tre miliardi e ottocento milioni di anni fa. Non è detto quindi, come si usa di solito, che deriviamo tutti da uno stesso organismo, anche se discendiamo tutti da un gruppo molto ristretto di individui primitivi, probabilmente unicellulari.

      Il secondo pilatro della proposta di Darwin è ancora più semplice del primo. L'intera differenziazione e produzione di tante specie diverse in tutto il mondo è il risultato di due soli fenomeni biologici: la continua produzione di varianti in tutte le popolazioni e in ogni generazione, e l'azione della selezione naturale. In fondo il nocciolo del darwinismo ma anche della nostra convinzione attuale che possiamo chiamare neodarwinismo, è tutto quà.

      Darwin era un formidabile osservatore, come del resto, quasi tutti i veri geni. Non gli sfuggiva nulla e sopratutto esaminava in modo nuovo cose che tutti avevano potuto e potevano notare, ma alle quali pochi o nessuno avevano dato importanza. Si dice che la teoria della gravitazione universale di Newton sia stata originata grazie ad una mela caduta proprio mentre si trovava sotto l'albero, cosa che lo avrebbe indotto a chiedersi il perché di tale fenomeno. Probabilmente l'episodio non è mai avvenuto ma rimane significativo: quante persone infatti hanno potuto osservare lo stesso fenomeno prima durante e dopo le scoperte di Newton? A lui però suggerì una domanda impellente. Lo stesso vale per Darwin. Quanti avevano già osservato che in ogni popolazione, naturale e artificiale, si trovano sempre alcuni individui varianti? Nessuno però aveva dato la minima importanza a questo evento che veniva anzi considerato un fenomeno di disturbo e un vero fastidio perché guastava l'idea della perfezione delle specie viventi, anche quelle modificate dall'uomo.

La natura della variazione 

                                     Darwin chiarisce che le variazioni che si verificano continuamente in ogni popolazione sono ineliminabili e casuali ma non poteva sapere perché e non poteva neanche sospettarlo con le conoscenze che si possedevano a quel tempo. Noi oggi invece ne conosciamo bene la natura: la mutazione è un piccolo o grande cambiamento nel testo del patrimonio genetico di un organismo. Naturalmente queste variazioni possono capitare nei geni, all'interno delle regioni di controllo dei geni stessi o in quella parte del genoma di cui non possediamo ancora oggi una precisa conoscenza.

      Quello però di cui siamo certi è che questa variazione non può non avvenire. Il patrimonio genetico è portato, come è noto, da una gigantesca molecola di DNA e ogni volta che una cellula si duplica deve copiare il suo patrimonio genetico in modo da trasmetterlo fedelmente alle cellule figlie e l'ideale sarebbe che le copie ricevute dalle cellule figlie fossero identiche tra loro e a quello della cellula madre. Il meccanismo in questione, cioè quello della replicazione del DNA, è incredibilmente fedele ma non perfetto.

      In condizioni ideali, senza cioè cause esterne di disturbo, la copiatura del DNA compie in media un errore ogni miliardo di caratteri. Si tratta di una percentuale molto bassa: lamentarsene sarebbe come biasimare una segretaria che compie un errore di battitura ogni cinquecentomila pagine dattiloscritte. Ma poiché i genomi sono molto lunghi ( quelli delle specie a noi più vicine contengono tre miliardi di nucleotidi ) ad ogni replicazione cellulare almeno un errore viene sempre commesso. Se si considera poi quante duplicazioni cellulari hanno luogo dal momento in cui si nasce a quello in cui ci si riproduce, diventa impossibile non trasmettere ai propri figli un certo numero di mutazioni che, se avessero un effetto immediato, riempirebbero il mondo di mostri. Fortunatamente non è così perché molte mutazioni non hanno un effetto osservabile. L'effetto di alcune è invece realmente osservabile perché incide sull'aspetto esterno dell'individuo, se non sulla sua salute.

     La comparsa continua di mutazioni è dunque un effetto inevitabile. C'è da notare inoltre che la frequenza di errore sopra ricordata ( uno su un miliardo ) riguarda le condizioni ottimali.      Ma basta  pochissimo per alzarla: la presenza di una sorgente radioattiva, un'intensa radiazione elettromagnetica ( per esempio ultravioletta ) uno sbalzo di temperatura o la presenza di sostanze inquinanti ( che con un termine specifico definiamo mutagene perché sappiamo che sono causa di mutazioni ). In tali condizioni il tasso di mutazione può aumentare di dieci, cento, mille e anche diecimila volte.

     Il processo evolutivo non è avvenuto, almeno in passato, nelle nostre città o nelle nostre campagne ma in un ambiente comunque in grande fermento. Nei primissimi tempi per esempio, i raggi ultravioletti che arrivavano sulla terra erano in numero molto maggiore rispetto ad oggi. Esistevano innumerevoli sorgenti radioattive in tutto il territorio così come si verificavano tempeste termiche e variazioni di pressione e di composizione chimica dell'atmosfera. E' ragionevole quindi pensare che nella maggior parte delle generazioni che si sono succedute in questi quattro miliardi di anni il tasso di mutazione sia stato spesso molto più alto di quello base.

      Il secondo aggettivo qualifica poi le mutazioni come casuali. Ovvero senza una direzione, una preferenza o una tendenza verso un fine particolare. Un ragionamento più sottile viene a volte proposto da chi si improvvisa esperto di fenomeni evolutivi e osserva che talvolta è l'ambiente a favorire la comparsa di qualche mutazione e quindi è l'ambiente a orientare le mutazioni. Niente di più falso: l'ambiente le può favorire e anche causare, ma mai orientare. Quindi ne causa di tutti i tipi: quelle più favorevoli alla vita in un determinato ambiente, quelle meno favorevoli e quelle neutre. Solo in un secondo tempo alcune si dimostreranno utili, altre meno ed altre ancora nocive o letali. E' vero quindi che l'ambiente nel complesso produce alcune mutazioni, ma non in una specifica direzione e con una finalità.

La selezione naturale

                    A sentire certe affermazioni si direbbe che la selezione naturale fosse un'entità o una forza costante che spinge gli eventi evolutivi in una direzione piuttosto che in un'altra. Non è affatto così. In ogni popolazione nascono di tanto in tanto individui dotati di caratteristiche diverse da tutti gli altri. Dopo una o più generazioni si può notare che alcuni individui hanno lasciato molti discendenti, alcuni pochi, altri ancora nessuno. Da un punto di vista evolutivo è vincente chi lascia la maggior quantità di discendenti. La cosa può essere transitoria e non avere alcuna importanza ma se ad ogni generazione gli individui che possiedono determinate caratteristiche biologiche lasciano più discendenti, alla fine l'intera popolazione sarà costituita da tali individui.
                     Questo dimostra tra l'altro la superficialità di molte affermazioni sul ruolo della selezione naturale. Spesso si dice infatti che la selezione naturale premia il più forte, colui che sopravvive nella competizione per la vita. Si tratta di un'idea che ha una parte di verità ma non coglie il nocciolo della questione. Certo se uno non giunge vivo all'età della riproduzione non può lasciare eredi, ma se arriva all'età riproduttiva in una forma perfetta ( forte, bello, assai competitivo ) ma per qualche motivo non genera figli, è come se avesse perso l'intera battaglia e la sua esistenza si concluderà con la scomparsa da quella popolazione delle sue caratteristiche biologiche. In sostanza la competizione è per lasciare il maggior numero di discendenti e non è legata all'essere più forte o robusto.
                      Ma veniamo all'ambiente. Questo concetto include le caratteristiche fisiche chimiche e biologiche del luogo: comprende cioè la temperatura con i suoi eventuali sbalzi, la natura del terreno e delle acque, la qualità dell'aria e della sua luminosità, la situazione orografica e idrografica, ma anche la presenza delle altre specie, microrganismi, piante e animali. L'abbondanza di vegetazione è fondamentale per un erbivoro, ma anche indirettamente per un carnivoro, così come è discriminante la presenza di predatori. Tutte queste caratteristiche possono poi cambiare nel tempo e trasformare il quadro biologico di riferimento.
            La selezione naturale opera su una determinata popolazione, in un determinato ambiente e per un certo periodo di tempo. Così i dinosauri si sono rivelati idonei per molto tempo alle condizioni di vita del loro periodo ma successivamente questo non è stato più vero, anche se non sappiamo bene perché. I trilobiti sono vissuti molto a lungo nei mari di tutto il mondo e poi sono usciti di scena. Ciò che vale per un periodo può non valere in seguito. 
                       La selezione ambientale seleziona positivamente alcuni invece di altri sulla base delle loro caratteristiche biologiche che a loro volta sono controllate dal patrimonio genetico.

             L'assetto genico cioè il particolare patrimonio genetico si dice genotipo  mentre l'insieme delle caratteristiche biologiche palesi, dall'aspetto esterno allo stato di salute è detto fenotipo.  
Possiamo quindi affermare in maniera appropriata che la selezione naturale opera sugli individui sulla base del loro fenotipo che è un riflesso del loro genotipo. L'ambiente seleziona positivamente i fenotipi di un certo tipo a scapito di altri e quindi concede più probabilità di perpetuarsi a certi genomi piuttosto che ad altri. Ovviamente se i genomi fossero tutti uguali la selezione non avrebbe alcuna base su cui pronunciarsi. Ma questo non capita praticamente mai.

             Da quanto detto dovrebbe essere chiaro che la selezione sceglie sulla base del fenotipo dell'intero individuo e non appoggiandosi a questa o quella sua caratteristica biologica.

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APPROFONDIMENTI :      Non si può parlare di genetica senza citare GREGOR MENDEL

La genetica è ormai una scienza a tutti gli effetti: oggi tutti noi sappiamo che le caratteristiche ereditarie di ogni individuo sono determinate dai geni, che si trovano nei cromosomi, i quali a loro volta sono dei segmenti di DNA. Se però oggi noi sappiamo tutte queste cose è grazie a Gregor Johann Mendel, che nella seconda metà del 1800 ha elaborato le 3 leggi fondamentali della genetica individuando ciò che regola l’ereditarietà dei caratteri nelle nuove generazioni di individui. Le leggi di Mendel possono essere applicate sia agli organismi vegetali che animali, compreso l’uomo, e rappresentano una svolta epocale nella comprensione di un fenomeno importantissimo, alla base della vita.

Il metodo di studio di Mendel

Leggi-di-mendelMendel riuscì ad arrivare alle sue conclusioni e formulare le 3 leggi in seguito a numerosi studi di tipo empirico basati su delle varietà differenti di pisello. Lo studioso identificò 7 varietà che risultavano diverse l’una dall’altra per via di caratteri visibili ad occhio nudo (forma e colore del seme, forma e colore del bacello, caratteristiche e colore dei fiori, lunghezza dei fusti). Il suo metodo si basò sull’impollinazione artificiale, grazie alla quale Mendel ebbe la possibilità di incrociare le diverse specie e studiarne i risultati. Si accorse che alcuni caratteri erano dominanti rispetto ad altri, che invece tendevano a scomparire nelle generazioni successive.------------------------------------   

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Department of Genetics, STANFORD University School of Medicine ---------

             La somma totale delle incidenze delle malattie genetiche oggi note ( migliaia ) è per ora solo di alcune unità per cento, ma è fatalmente destinata ad aumentare, forse anche in modo considerevole, col migliorare delle nostre conoscenze.  Negli ultimi cinque anni si sono avuti nuovi sviluppi che stanno  cambiando radicalmente la situazione.

            La possibilità di analizzare direttamente l'acido desossiribonucleico  ( DNA ) di ogni individuo ci permette di studiare, almeno in teoria, qualunque forma ereditaria.Applicazioni dirette sono state fatte sopratutto nel campo delle emoglobulinopatie, in particolare l'anemia falciforme e la microcitemia. La diagnosi di queste malattie è ora possibile anche sull'embrione e in tempo per l'aborto preventivo. Le stesse tecniche di analisi del DNA sono state estese a due importanti malattie ereditarie: la fenilchetonuria e la corea di Huntington. Della fenilchetonuria si conosceva già il meccanismo biochimico ed il metodo di prevenzione post natale: mancava un metodo sicuro per diagnosticare i portatori sani. Dalla corea di Huntington praticamente nulla è noto a livello patogenetico e biochimico. Ora diventa possibile la diagnosi sull'embrione e la conoscenza della posizione cromosomica del gene responsabile della malattia consentirà di identificarlo e definire la base chimica del difetto. Ciò permetterà di capire il meccanismo patogenetico e proporre terapie razionali. La terapia del gene si propone di sostituire il gene difettoso dell'individuo malato con un gene normale. La sostituzione andrà condotta in tutte le cellule dell'organismo, almeno in quelle che contano, e quindi pone dei problemi non semplici, anche se, in certe condizioni è già sperimentalmente possibile. Oggi la prevenzione genetica è un fatto acquisito per molte malattie ereditarie e le nuove tecniche di analisi del DNA permetteranno di estenderla in pochi anni alle altre malattie in cui non è ancora possibile. Oltre agli enormi vantaggi diretti che se ne potranno ricevere nella cura di un gran numero di malati si potrà anche porre rimedio al danno indiretto di cui sono responsabili i progressi della Medicina e della Chirurgia: l'effetto "disgenico".

  Cosa si intende per EFFETTO DISGENICO?      -  I successi della medicina stanno permettendo la sopravvivenza e riproduzione di molti che fino a pochi anni fa non avevano alcuna probabilità di giungere all'età adulta. I loro geni possono ora diffondersi liberamente alle generazioni future. E' vero comunque che nella maggior parte dei casi  l'aumento di incidenza di queste malattie sarà molto lento e sono dunque ancora lontani i tempi in cui l'effetto disgenico potrà raggiungere livelli preoccupanti.

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